L’Home Restaurant rappresenta il fenomeno sociale del momento attraverso il quale case, terrazze, palazzi e giardini privati vengono condivisi dai proprietari che hanno anche la passione per la buona cucina, con la finalità di “ospitare” turisti o semplici avventori e offrire loro un pranzo o una cena dietro il pagamento di un corrispettivo. Le statistiche delineano un fenomeno in continua evoluzione che, secondo i dati contenuti nel rapporto del Centro Studi Turistici, ha registrato un fatturato stimato di ben 7,2 milioni di euro solo nel 2014, con 37.000 eventi organizzati e con un trend confermato in crescita anche per l’anno 2015.
Sicuramente occorre considerare che tale attività può rappresentare un apprezzabile propulsore per la crescita dell’economia nazionale: infatti, mentre per giovani disoccupati e casalinghe rappresenterebbe un’importante opportunità di lavoro in grado di esaltare al contempo la propria arte culinaria, per chi possiede già un lavoro potrebbe costituire invece un’opportunità reddituale di tipo complementare. Al tempo stesso si potrebbe cogliere l’opportunità di valorizzare i prodotti e i piatti tipici attraverso la proposta di antiche ricette che porterebbero soprattutto i turisti a conoscere le peculiarità culinarie del territorio, abbinandole alla cultura dell’accoglienza e della socialità. In fin dei conti sono questi i presupposti che caratterizzano anche le attività di Bed&Breakfast ormai ampiamente diffuse su tutto il territorio nazionale.
Dal punto di vista normativo non esiste ancora una disciplina specifica che regola lo svolgimento dell’attività da parte dell’Homer (colui che ospita ed esercita l’attività di Home Restaurant). Occorre però precisare che nel 2009 e nel 2014 sono stati presentati due disegni di legge contenenti disposizioni in materia di promozione e svolgimento dell’attività di Home Food. Entrambi i DDL non sono stati mai discussi dal Parlamento Italiano. Le linee guida di tali proposte prevedevano:
- che gli Homer potessero svolgere l’attività avvalendosi della propria organizzazione familiare e utilizzando parte (massimo due camere) della propria struttura abitativa (anche se in affitto) per venti coperti al giorno;
- che i locali della struttura abitativa adibita ad Home Restaurant possedessero i semplici requisiti igienico-sanitari per uso abitativo previsti dalla vigente normativa;
- la presentazione di una comunicazione di inizio attività presso il Comune competente, unitamente ad una relazione di asseveramento redatta da un tecnico abilitato, in seguito alla quale il Comune stesso, dopo apposito sopralluogo, doveva confermare l’idoneità della struttura abitativa all’esercizio dell’attività di Home Restaurant.
Infine, secondo tali proposte, non era previsto il cambio di destinazione d’uso dell’immobile per l’esercizio dell’attività, comportando anzi per i proprietari (o conduttori) l’obbligo di adibirla ad abitazione personale e non era prevista alcuna iscrizione al registro esercenti il commercio. Dal punto di vista fiscale l’attività era equiparata alle attività commerciali non esercitate abitualmente.
Per tutta risposta una risoluzione del Ministero dello Sviluppo Economico datata aprile 2015 e avente ad oggetto la richiesta di un parere circa l’inquadramento dell’attività di cuoco a domicilio, ritiene che l’attività in discorso (caratterizzata dalla preparazione di pranzi e cene presso il proprio domicilio in giorni dedicati e per poche persone, trattate come ospiti personali, però paganti) sia equiparabile ad una tradizionale attività di somministrazione di alimenti e bevande. Difatti, nonostante il cuoco a domicilio eserciti solo in alcuni giorni dedicati e che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni siano in numero limitato, si conclude che tale attività non può che essere classificata come somministrazione di alimenti e bevande, in quanto anche se i prodotti sono preparati e serviti in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, questi rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela. Infatti, la fornitura di dette prestazioni comporta il pagamento di un corrispettivo e, quindi, nonostante l’innovativa modalità di esercitare una propria passione, l’attività in discorso si esplica quale attività economica in senso proprio. Di conseguenza, non potendosi considerare un’attività libera, essa è pertanto sicuramente assoggettabile alla previsione normativa applicabile ai soggetti che esercitano un’attività di somministrazione.
Per meglio comprendere le ragioni alla base della predetta Risoluzione è opportuno analizzare i requisiti posti alla base della definizione di imprenditore (art. 2082 C. Civ.):
Imprenditore è colui che esercita professionalmente un’attività economica (con criteri di economicità, ovvero in condizioni di pareggio del bilancio) finalizzata alla produzione e allo scambio di beni o servizi.
L’attività svolta da chi esercita l’Home Restaurant sicuramente rappresenta una serie coordinata di atti diretti a rendere un servizio. Per professionalità si intende l’esercizio stabile e abituale di un’attività, non svolta in modo saltuario od occasionale. Pertanto, organizzare sistematicamente eventi costituiti da pranzi o cene presso la propria abitazione dietro il pagamento di un corrispettivo, sicuramente rappresenta un’attività professionale. Non è necessario invece che l’attività sia continuativa: ad esempio, se è svolta solo in alcuni periodi dell’anno non è sicuramente continuativa ma ricorrente (prendiamo a riferimento le attività stagionali). Infine non è necessario per qualificare un soggetto imprenditore che questi svolga in via esclusiva o prevalente una data attività. Con riferimento all’organizzazione, in genere l’attività svolta dall’imprenditore richiede la combinazione di due distinti fattori: il capitale e il lavoro. Invero al giorno d’oggi il progresso tecnico consente di svolgere attività d’impresa attraverso l’impiego del solo capitale (ne sono tipico esempio le lavanderie a gettoni). Ne consegue pertanto che l’organizzazione può essere costituita anche da un solo fattore (es. capitale), purché esso sia diretto al perseguimento di un fine produttivo. Infine, con riferimento all’economicità, la definizione di imprenditore non richiede espressamente lo scopo di lucro ma quantomeno una gestione dell’attività finalizzata a conseguire il pareggio tra costi e ricavi. Pertanto nel caso in esame è irrilevante se il corrispettivo sia diretto semplicemente a coprire le spese dell’Homer o anche a far sì che da quell’attività si tragga un guadagno.
Quindi, partendo da questi presupposti è innegabile che l’Home Restaurant possa essere considerata attività d’impresa, in quanto nel suo svolgimento ricorrono sicuramente l’abitualità e l’organizzazione. L’avvio di tale attività è pertanto soggetto alle autorizzazioni previste per chi esercita l’attività di ristorazione vera e propria:
- frequenza al corso abilitante per la somministrazione di alimenti e bevande;
- apertura della Partita IVA
- iscrizione presso la Camera di Commercio,
- inquadramento previdenziale presso l’INPS
- iscrizione all’INAIL.
Sarà infine necessario chiedere presso il Comune di residenza il cambio di destinazione d’uso dell’immobile in cui verrà svolta l’attività e di conseguenza presentare la Scia (Segnalazione certificata di inizio di attività) ed ottenere infine l’autorizzazione sanitaria dell’ASL.
A conclusione della trattazione e per completezza di informazione sull’argomento, si ritiene opportuno menzionare una seconda tipologia di attività, simile all’Home Restaurant ma con caratteristiche peculiari: il Social Eating.
Per meglio comprenderne differenze e similitudini è utile partire dalle definizioni di entrambe le attività:
L’Home Restaurant si caratterizza per la preparazione di pranzi o cene presso il proprio domicilio in giorni dedicati, per poche persone che, pur venendo trattate come ospiti personali, pagano uno specifico corrispettivo. L’attività è svolta svolta abitualmente, con l’utilizzo di strumenti professionali e con alla base un’organizzazione imprenditoriale.
Il Social Eating consiste nell’organizzare occasionalmente una cena in casa propria (anche con sconosciuti) dietro il pagamento di un corrispettivo, a fronte del quale il padrone di casa rilascia ai propri “ospiti” una ricevuta, documentando al tempo stesso le spese sostenute. Pertanto in tal caso non si ipotizza un’organizzazione imprenditoriale alla base dell’esercizio di tale attività, in quanto lo scopo principale dell’evento è quello della socialità con l’intento specifico di dar la possibilità all’ospite di associare la passione per la cucina all’opportunità di conoscere gente nuova.
In quest’ultimo caso, trattandosi di eventi sporadici e riservati, non troverebbe applicazione la specifica normativa dettata in tema di somministrazione di bevande e alimenti mentre l’Home Restaurant è indubbiamente assoggettato a tale disciplina.
In caso di esercizio di attività di Social Eating non è richiesta l’apertura della Partita IVA fino al raggiungimento della soglia di € 5.000 lordi annui, oltre la quale scatterebbe l’obbligo contributivo e quello relativo all’apertura della Partita IVA seppur nel regime forfettario agevolato. Il soggetto nell’esercizio della sua attività rilascia una ricevuta del corrispettivo in cui si attesta che l’attività è svolta in modo occasionale. Con riferimento alle autorizzazioni sanitarie esse non sono previste ma è consigliato almeno il possesso di un certificato sulla Sicurezza Alimentare (HACCP). Per completezza d’informazione, in data 29 luglio 2015 è stata presentata una nuova proposta di legge, simile a quelle precedenti (2009 e 2014) che prevede che il gestore consegua un certificato HACCP.
Come abbiamo potuto notare la normativa ancora non è chiara e non pone, in realtà, limiti ben definibili, pertanto nonostante le conseguenze positive che lo sviluppo di queste piccole realtà “social” apporterebbero all’economia reale, occorrerà sicuramente stabilire regole certe in modo da evitare fenomeni di concorrenza sleale nei confronti di chi esercita attività di ristorazione nel rispetto di regole e normative ben definite, dirette ad ottenere specifiche autorizzazioni, a partire da quelle igienico-sanitarie, che la legge richiede a ristoratori e pubblici esercizi per tutelare la salute e la sicurezza del consumatore.